sabato, aprile 22, 2006

il futuro dell'Italia


Il futuro dell'Italia?
Massimo Gramellini [La Stampa]



All'alba di una nuova era politica, il primo raggio di luce che si staglia all’orizzonte è la possibile nomina di un signore di 86 anni alla presidenza della Repubblica e di uno di 87 a quella del Senato. La prospettiva ha suscitato un minimo di imbarazzo in Ciampi. Nessuno in Andreotti.

In fondo le cariche istituzionali sono il luogo della saggezza e dell’esperienza. I giovani come Prodi e Berlusconi, che si attardano ancora intorno ai 70, possono essere più utili negli incarichi operativi. All’ultimo Conclave destò un certo scalpore che un cardinale di 67 anni venisse escluso dalle scelte dello Spirito Santo perché considerato troppo giovane. Dall’altra parte del Tevere potrebbe concorrere a stento per un posto da sottosegretario. Inutile stupirsi e dare sempre la colpa alla politica, che mai come in questo caso è lo specchio fedele dell’Italia, il Paese col tasso di natalità più basso del mondo. I figli crescono e le mamme imbiancano, cantava Franco Battiato, ma i padri - non solo quelli della Patria - restano lì imperterriti, trasformandosi un lustro dopo l’altro in nonni, bisnonni e trisavoli: comunque a disposizione. E’ mica colpa loro. Una volta la vita era più acciaccata e breve, i giovani più numerosi e agguerriti, le rivoluzioni più frequenti e spietate. Napoleone divenne generale a 27 anni. D’accordo, era Napoleone, ma senza il crollo dell’Ancien Régime per ottenere il comando di un’armata non gli sarebbe bastato nemmeno l’aiuto di Previti e Dell’Utri. Qualcuno si era illuso che Mani Pulite avrebbe favorito un ricambio generazionale. Invece era una finta e comandano sempre i soliti, finché morte non li separi: dalla poltrona.

Nessuno chiede di emulare le scelte giovaniliste di altre nazioni come l’Inghilterra dell’ottuagenaria Elisabetta, dove può capitare che un trentenne intraprendente venga nominato capo dell’opposizione o, più banalmente, riesca a ottenere un fido dalla sua banca. Né si pretende che nei partiti, negli ospedali e nelle università i vecchi baroni si ritirino a scrivere la propria autobiografia, lasciando gli scranni ai cinquantenni di valore che nel frattempo sono emigrati all’estero o meditano di farlo. Ci basterebbe un modesto segnale di svolta, un innesto moderato di forze nuove e di energie fresche. Largo ai sessantenni. Almeno a loro, per pietà.


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