martedì, aprile 11, 2006

Il Cavalier per sempre

Il Cavalier per sempre

Massimo Gramellini [La Stampa]

Comunque vada a finire, la vera sorpresa di queste elezioni è che l'Italia non cambia mai. O forse a essere stupefacente è solo il nostro stupore, alimentato da anni di sondaggi ed elezioni locali a senso unico. A furia di leggere e scrivere che il popolo del centrodestra non ne poteva più di Berlusconi, avevamo finito col sottovalutare un particolare decisivo: che qualsiasi nausea e delusione sarebbero sempre state inferiori alla paura procurata dal pronostico di una vittoria altrui. E quel popolo detesta i valori della sinistra e ne teme l'attuazione pratica al punto da essere disposto a turarsi ogni volta il naso, pur di non mandarla comodamente al potere.

Berlusconi non è la democrazia cristiana, ma i suoi elettori sì, e non averlo mai voluto capire è la colpa strategica dei partiti dell'Ulivo. I berluscones sono l'Italia che si sente all'opposizione dai tempi «di quel comunista di Fanfani», tranne aver sempre continuato a votare per chi stava al governo, lamentandosene. L'Italia dissimulatrice che mente agli exit polls perché non vuol far sapere in giro per chi vota: mica per vergogna, ma per disinteresse, non considerandolo un motivo particolare di orgoglio. La maggioranza silenziosa che non ha una passione speciale per la politica e se avesse un Moretti o una Guzzanti di centrodestra non andrebbe nemmeno a vederli, perché preferisce le commedie romantiche e i giochi a premi. Un fiume carsico che scorre sotto traccia per badare agli affari propri e riappare in superficie solo il giorno delle elezioni nazionali, quando bisogna sbarrare il passo ai «cattivi» che vogliono portargli via «la roba».

Sono quelli che preferiscono l'America all'Europa, le barzellette agli appelli e i libri della Fallaci a quelli di Terzani. Sullo Stato hanno idee chiare: non lo considerano un amico, ma un padrone che vogliono affamare con la riduzione delle tasse, e pazienza se all'inizio a rimetterci non saranno le autoblu dei ministri ma i servizi, perché «è come nelle diete, prima di arrivare a perdere la pancetta devi rassegnarti a dimagrire anche dove non vuoi».

L'unica speranza che l'Unione aveva di ammansirli era mettere in pista il suo finto democristiano: l'ipnotizzatore di masse variegate Walter Veltroni. Invece ha insistito col voler schierare quello vero, Romano Prodi. Ora, se c'è una categoria che gli elettori democristiani detestano con tutta l'anima sono i cattolici rossi o almeno rosè. Già il cuore piccolo borghese della democrazia cristiana era convinto che i propri voti difensivi servissero ai vertici del partito per promuovere politiche progressiste e candidati molto più a sinistra del loro elettori. Prodi rappresenta la sintesi di ciò che essi detestavano e detestano: don Camillo che va a pranzo da Peppone. Più prosaicamente, il sindacato rosso che si mette d'accordo con la Confindustria sulla pelle del ceto medio dei piccoli produttori.

Nessuno, a sinistra, ha provato sul serio a esorcizzare queste antiche paure, pensando che il fallimento del governo Berlusconi avrebbe influito sugli esiti del voto più di qualsiasi pregiudizio contrario nei loro confronti. Non è così. Non nel Nord industriale del Paese. Quello che ha eletto a suo filosofo di riferimento un commercialista, Giulio Tremonti, e almeno a parole vorrebbe riforme liberali, ma in ogni caso preferisce tenersi stretto il suo monopolista preferito che affidare la dichiarazione dei redditi agli amici del compagno Visco.

Nulla riesce a smuoverli dalle certezze dell'esperienza e il sentirsi perennemente descritti dagli intellettuali come uomini ignoranti e allergici alle regole non fa che alimentare la convinzione di essere nel giusto. Dopo dodici anni si tengono ancora stretto Berlusconi: è diventato una ossessione, ma sempre meno che per gli altri, «i comunisti».

Se aveva ragione Borges, e la democrazia perfetta è quella in cui i cittadini non ricordano come si chiama il loro presidente, l'Italia di questi anni è stata di un'imperfezione assoluta. Riesce ormai difficile persino immaginare che sia esistito un tempo in cui i giornali potevano uscire la mattina senza avere sulla prima pagina il marchio di quelle quattro sillabe, Ber-lu-sco-ni, abbinato a qualche dichiarazione dirompente: «Scendo in campo!», «Magistrati comunisti!», «Farò l'Italia come il Milan!», «Giornalisti stalinisti!», «Meno tasse per tutti!», «Bollitori di bambini maoisti!», «Sì, avete capito bene, a-bo-li-rò l'Ici!», «Chi non vota per i propri interessi è un coglione!» e ogni punto esclamativo era il profilo della sua dentatura, sorridente o digrignante a seconda del copione. Ma risulta altrettanto improbo ricordarsi un film, un libro, un monologo satirico, un'inchiesta giornalistica e finanche una conversazione privata su un oggetto politico, calcistico o televisivo che non andassero prima o poi a sbattere lì, addosso a Sua Invadenza. Lui che se fosse un elemento del creato, non sarebbe fuoco che brucia ma acqua che sommerge, occupando ogni spazio vuoto aggirabile o non ostruito da una diga.

Eppure i berluscones continuano a sopportarlo, a considerarlo uno di loro. Qualche sua bizza ha il potere di imbarazzarli, ma nessuna veramente di sconvolgerli. Lo accettano come il fratello un po' troppo disinibito che avrebbero voluto avere e, in fondo, essere. Li accomuna la stessa visione utilitaristica delle istituzioni e l'idea assolutamente rivoluzionaria che lo Stato e la politica debbano essere gestite da un padrone, proprio come le aziende. Che la democrazia non sia partecipazione diffusa e continua, ma consista nel trovare 5 minuti ogni 5 anni per andare a votare, delegando per il tempo rimanente qualcuno che abbia non solo la voglia bizzarra di occuparsene, ma anche un interesse personale nel farlo, perché «se Berlusconi non avesse le tv e tutto il resto, non avrebbe alcun tornaconto a far andare bene l'Italia, diventerebbe un politico e si metterebbe a rubare come gli altri», mi ha spiegato un idraulico romano che lo vota da una vita: immaginarlo a colloquio con un girotondino dà la misura della incomunicabilità delle due Italie che non hanno più un linguaggio di valori condivisi con cui parlarsi o almeno capirsi. Ognuna delle due addossa all'altra i mali della modernità: l'immobilismo delle gerarchie, l'impoverimento del ceto medio, la diminuzione delle garanzie, la superficialità delle emozioni, l'orgoglio dell'ignoranza, il sadismo dei reality show. Si guardano in cagnesco, mentre la barca affonda. Senza nemmeno più rendersi conto che è la stessa barca

Nessun commento: